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Cultura

Gianluca Nicoletti: "Ho la sindrome di Asperger. Adesso la mia estrosità ha un nome. Io sono mio figlio, e lui è me"

Ansa/Fabrizio Intonti
Ansa/Fabrizio Intonti 

"Mi hanno detto che sono crudele, sono disumano, ma io quando la gente parla mi annoio. Non riesco a essere formale. Dico le cose in faccia, come le penso. Se prima avevo dei sistemi di ammortamento sociale, adesso li ho abbandonati. Non ho più voglia di adeguarmi a delle regole che non hanno nessun senso. Fingersi amici, attenti alle vite degli altri, ma a che serve? Mi hanno anche detto che non so amare, ma amare è quello che faccio per mio figlio. Solo quello".

Quando Gianluca Nicoletti parla – e si inerpica fra neologismi e metafore, strutturando discorsi complicatissimi ed esponendoli come fossero rap – tutto si avvinghia alla disperazione che solo le cose vere e crudeli ancora posseggono.

Nicoletti nella sua vita è stato tante cose. Ha cominciato a lavorare nel 1983 alla RAI, prima come giornalista dunque inviato speciale, infine capostruttura della Divisione Radiofonia, arrivando a creare il primo portale internet dinamico della tv pubblica.

Adesso è editorialista e speaker radiofonico, in onda su Radio24 tutti i giorni all'ora di pranzo con Melog. Dopo due libri di successo, Una notte ho sognato che parlavi e Alla fine qualcosa ci inventeremo, entrambi pubblicati da Mondadori, è di nuovo in libreria con "Io, figlio di mio figlio". Il suo testo forse più personale, e più struggente, in cui si racconta in prima persona, dalla biografia alla diagnosi – pubblicata integralmente – che evidenzia come lui soffra della sindrome di Asperger.

Perché ha scelto di pubblicare integralmente dei documenti così personali?

Quando è arrivata la diagnosi, ho passato un mese veramente atroce. Ha mai sentito fare comingout di pazzia? Ma l'ho fatto, sfidando ogni cosa. Io non sono staccato da mio figlio. Io sono mio figlio, e lui è me. Se faccio una battaglia per mio figlio, la faccio anche per gli altri. Adesso la mia estrosità ha un nome. Mi sembrava inutile tenerlo nascosto. E allora ho fatto uno sforzo. Mi sono messo in gioco in prima persona. Anzi, mi sono segnato a vita per dimostrare al mondo che si può vivere con il cervello strano. Non è una cosa che ho fatto a cuor leggero. Se hai un problema così, come il mio, ti senti matto. Ma dovevo farlo.

Perché?

Perché non sono i vaccini. Se hai un figlio strano, un po' strano sei anche tu. In gran parte, l'autismo si passa da padre in figlio. Non sarà la causa unica, lo so, ma non ho mai visto una persona strana che non ha un figlio strano. Ad alcuni, lo leggi in faccia. Poi negli incroci genetici ci sono le mutazioni, certo, ma il cervello strano lo prendi.

Lei ha una posizione molto critica rispetto ai no-vax.

Sono dei poveracci. È come una religione che nasce da un'eresia. Nasce da una menzogna. Basta guardare 1000 autistici in una stanza, e ci si chiede: ma cosa centrano i vaccini? Se poi la scienza darà loro ragione, sono disposto a ricredermi.

"La tutela costante di un figlio autistico corrisponde al naufragio di ogni speranza e piacevolezza individuale. Siamo tante monache di Monza, costretti alla clausura da chi non vuole spartire con noi il patrimonio comune del benessere sociale". Nel suo libro ha scritto questo.

È esattamente così: con un figlio autistico non sei più padrone della tua vita. Lui diventa padrone del tuo tempo. Il tempo libero diventa contingentato, e ne usufruisci in modo imprevedibile.

Le relazioni sociali diventano complesse, se non impossibili.

Gli amici prima ti compatiscono, poi ti vogliono bene, poi ti dicono: fatti la tua vita, e occupati di tuo figlio. Intorno a tutto questo ci devi mettere il lavoro. E allora non hai più spazio per gestirti l'affettività, le amicizie. Questo ti isola, ti incattivisce, ti sfugge tutto intorno. Se non te ne fai una ragione.

Lei se ne è fatto una ragione?

Alla fine sto bene così. È quello che voglio. A volte mi mancano, un pochino, le cose che avevo primo. Cazzeggiare con degli amici, con delle persone simpatiche, andare a cena. Ma è difficile. Lavoro molto e il lavoro mi compensa.

In che modo?

Faccio un lavoro che implica relazione, e non mi posso lamentare. Mi sono costruito una macchina di sopravvivenza efficiente. Ammortizzo l'ansia nell'iperproduzione, nell'iperscrittura, nell'iperloquacità. Questo ti sfoga, come un cavallo che fai correre fino allo sfinimento. Se sto un giorno senza lavorare, soffoco. Il lavoro per me è la sopravvivenza.

Ma il lavoro, come ha raccontato sempre nel libro, non le ha lesinato sofferenze. Scrive: "Il 25 dicembre 2004 ogni traccia di me era stata cancellata dal sito della Rai. Come se non fossi mai esistito".

Sono stato allontanato in maniera vergognosa, e senza alcuna colpa. Nessuno ha fatto niente. È stato terribile, ma me ne sono fatto una ragione. Dovevo capire che non ero più funzionale al sistema, e il sistema ha reagito. Da un giorno all'altro non ti rivolge la parola più nessuno, è assurdo. Alla fine, però, non sarei potuto stare dietro la scrivania in RAI ad aspettare i giri di boa della politica.

Eppure è costretto all'ipergioventù.

(ride) I figli autistici ti costringono ad avere una capacità di reinventarti, di rimanere sulla breccia per un tempo infinito. Io vorrei diventare vecchio, ma mio figlio me lo impedisce. I figli autistici sono come i vampiri: ti succhiano il sangue, ma ti danno l'immortalità.

L'idea del futuro però si rivela un tormento.

Diventa fondamentale produrre qualcosa che abbia un senso, e si alimenti con il valore aggiunto di questi cervelli ribelli. È questo quello che sto provando a fare con il casale delle arti, che dovrebbe essere un progetto di vita per questo ragazzi, una microazienda che produce cose di valore per il mercato.

La scuola italiana come si dimostra?

Totalmente inadeguata. Il mio progetto lo sto facendo con la parte più avanzata del Miur.

E intanto mancano anche le nuove linee di indirizzo per l'assistenza agli autistici.

Ancora non le hanno fatte uscire. Non si sa perché. C'è una grande guerra, perché dalle linee guida nascono i trattamenti.

A 63 anni, come dicevamo, le hanno diagnosticato la sindrome di Asperger. Ma il cervello ribelle quando ha capito di averlo?

L'ho sempre saputo. Mi sentivo diverso.

Mi spieghi.

Ti ricordi minimi particolari della tua infanzia, vuoi stare da solo, non vedi l'ora di stare da solo. E poi io costruivo le capanne e le casette, mi ricordavo le luci e gli odori. Il mio problema era la famiglia: genitori dappertutto, fratelli dappertutto, famigliari ovunque. A un certo punto della mia vita, mi sono accorto che mi trovo sempre ai margini, in qualsiasi gruppo. Gli altri erano gli altri, e io non entravo in sintonia con loro. Cose da suicidarmi, appena sentivo di una festa di compleanno. E tutt'ora mi riesce difficile.

Una curiosità: ma quando uno le parla e lei si annoia, come si comporta?

Tergiverso. Dico cose mie. Distruggo nell'altro ogni possibilità di continuare. Non ho paura di radicalizzare il mio rifiuto, la mia volontà oppositivo. Dico: "Adesso mi sono rotto, ho capito". Una volta ero meno tranchant. Adesso no. A volte cambio argomento. Vado di palo in frasca. Anche in radio, non tolgo la parola come mi rimproverano, ma quando qualcuno dice qualcosa che non mi interessa, cambio piano. La mia è una ricerca di sopravvivenza. È la ricerca di appagamento. La relazione diventa una ricerca continua del punto G: se non arriva quello, è un eterno frigido relazionale.

Prima era altrettanto insofferente?

Da bambino tantissimo. Ho avuto un'adolescenza terribile. Alle feste ero sempre diverso. Sempre una montagna da scalare. Ma quando ho cominciato a fare della diversità la mia forza, tutto è cambiato.

Come?

Mi sono laureato, ho fatto un concorso ministeriale, l'ho vinto, sono andato in Spagna a insegnare. Per puro caso capitai in Rai e per caso ho fatto questo lavoro, che è stato la mia fortuna. Il mio cervello ribelle si è rivelato il mio motivo di sopravvivenza.

In che modo?

Grazie a uno sguardo laterale rispetto agli altri. Poi man mano ti aggiusti, e vai avanti. Adesso, da quando è uscito il libro, i colleghi mi guardano come un malato terminale.

E lei come reagisce?

Mi piace avere un cervello che produce sempre qualcosa. Non sto mai senza idee. Sono sopraffatto, dalle mie idee. Così non ho tempo per i pensieri cupi, per l'ansia. Quando mi vengono, cerco di riderci su.

La società, così chiusa alle diversità, come risponde?

La società si autodifende abbassandosi sul livello medio comune a tutti. Il bullismo è in piccolo la metafora della società. I bulli sono i mediocri. Una società basata sull'eccellenza non si potrebbe reggere. Forse è giusto che l'equilibrio sia questo: non puoi pensare che una persona accetti che sei diverso.

Perché?

Perché il diverso demolisce gli ammortizzatori di sicurezza: che Dio c'è e ci assiste, che la mamma e il papà sono buoni, che il cuore è la sede dell'amore... Il diverso demolisce la lettura superficiale delle cose. Ma la realtà non è mai bianco o nero. Guarda il successo del pensiero nei social network: un pensiero basico. O la pensi come me, o devi morire. Ma non c'è da stupirsi. Una realtà basata su un pensiero binario, deve e può esprimere solo un pensiero binario.

Pensa dunque che non ci sarà mai integrazione?

Non lo so, credo però sia molto difficile. Non dobbiamo dimenticarci che le grandi innovazioni, da Bill Gates a Mark Zuckerberg a Steve Jobs, sono state portate avanti da persone che hanno sospetto di autismo. E sono persone che hanno cambiato il mondo delle relazioni perché ciò che è facile per le loro menti ribelli diventasse semplice per tutti.

Perché il futuro ha bisogno degli autistici?

Le relazioni stanno cambiando. La società si sta articolando diversamente. E il lavoro richiederà delle capacità di multitasking assolute. Ci siamo evoluti tante volte, abbiamo perso il pelo e creato il riscaldamento e i vestiti, ci trasformeremo di nuovo. E gli autistici saranno all'avanguardia.

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