Cultura

Io, Roth e quel bellissimo dolore

L'immagine di copertina di Pastorale americana, di Philip Roth  
Tutte queste storie che parlano di morte e di perdita non muoiono, non si perdono. E allora avanti. C'è ancora un sacco di roba da leggere e dolore da scrostare
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SI DICE sempre che la lettura moltiplica il numero di vite possibili, e questo è certamente vero, però la grande letteratura moltiplica soprattutto la nostra, di vita. Dunque, ci sarà un motivo se il primo libro impilato lì sul comodino, da anni, è sempre lo stesso e ha una copertina verde chiaro (la sovracoperta con l'incendio della cartolina quella no, quella si toglie per non gualcirla), ed è il libro che racconta la storia di un padre che prova a essere giusto e buono eppure perde tutto, e non capisce. 'Pastorale americana'. Passano altre vicende, a rotazione, sul comodino, molte delle quali inessenziali, eppure c'è sempre lo Svedese lì sopra a correre, a morire, a smarrirsi. Lui e poi gli altri, indietro.

Quante volte, leggendo ma soprattutto rileggendo Philip Roth, capita di fermarsi con addosso una specie di sbigottimento sempre nuovo per pensare: cavolo, ma è proprio di me che sta parlando! Questo fa la differenza tra le molte vite possibili e la coazione a ripetere, a rivedere, a temere nel suo sviluppo e prefigurare nel suo epilogo l'unica, la propria. Non è allegrissimo ma è meraviglioso. Ecco, leggere Roth è un bellissimo dolore.

Perché leggi lui, leggi dello scintillante impeccabile illuso povero Levov, e intanto leggi te. Quella volta che eri ragazzo e ti chiudevi in bagno e tua madre pensava che fossi diventato stitico: eri Portnoy. Quella volta che hai considerato il corpo di tua madre morente e hai rivisto il fotogramma del water incrostato di merda che il figlio di Patrimonio si trova a ripulire, dopo la morte del padre portato via da un cancro al cervello duro come un'unghia incistata nella materia (quell'immagine tremenda che non ti abbandonerà mai più: ogni volta che penserai a un tumore al cervello saprai che ne esistono di molti tipi, come Roth ha descritto, ma uno è un'unghia lì, dentro la testa, al mondo non può esistere niente di più agghiacciante), quella volta dunque che passati i cinquanta realizzi che quanto alla fine rimane di un corpo, di una vita, di una collana di ricordi, se non hai figli è solo merda.

Oppure quell'altra volta, quando hai pensato al professore che ti ha fatto amare così tanto le parole, pure lui non poco idealista, e allora ecco Ira e Murray Ringold e quell'uomo di ferro, ecco l'epilogo delle costellazioni che ardono come una fornace lassù nel vuoto universo e magari forse no, forse quello che invece resta non è merda ma una stella nel buio.

E la diversità, il pregiudizio, l'essere giudicati con leggerezza e con leggerezza giudicare, e così abbandonare un uomo alla sua incurabile solitudine benché orgogliosa. Lasciamo un seme, una chiazza di sperma vetrificato, una macchia, lasciamo e siamo una macchia umana.

Però che errore ridurre questo colosso del Novecento a una storia di sesso e prostata, ma che errore anche più grave non leggere ogni sua riga alla luce del desiderio e della vitalità bruciata, goduta e perduta del corpo procreante. Il suo personaggio più memorabile, insieme allo Svedese, è Sabbath: solo Philip Roth poteva raccontare di un uomo che si masturba sulla tomba della sua donna (ne esiste solo una, alla fine, nella moltitudine) senza diventare volgare o, peggio, grottesco. E allora tu leggi e pensi che quella non è mica una scena di sesso, è la tragedia di una mancanza, è la mutilazione quotidiana che il tempo ci porta in dono. Quella scena è Roth: passare da una perdita all'altra e ricominciare ogni mattina, con seria ostinazione, e poi schiattare.

E tutte le altre cose lette e profondamente personali benché di ognuno, e mica si possono raccontare qui, ragazzi, quasi tutti teniamo famiglia. Ma trovatene un altro come Roth che dica al lettore guardati, non averne vergogna, al limite pena e molta, moltissima compassione.

E poi i guanti, certamente, i guanti, e papà e mamma, e i loro mestieri che erano, restano un modo di stare al mondo, ci infiliamo ogni giorno nelle loro vite per indossarle proprio mentre siamo sicuri di dismetterle: questo ci dicono i grandi libri, chi non siamo mai stati e chi non siamo più. Però si ride anche. A crepapelle. Finché dentro un cimitero non faremo quattro chiacchiere con un becchino che sta scavando una fossa, e ci faremo spiegare ogni aspetto tecnico con la curiosità che non manca all'uomo qualunque, all'io come tutti, al nostro povero animale morente. Poi si esce nel traffico e chissenefrega.

Oggi è un giorno cominciato malissimo: Philip Roth morto. Come se il libro sul comodino ci chiedesse, e adesso? La risposta è semplice. Tutte queste storie che parlano di morte e di perdita non muoiono, non si perdono. E allora avanti, c'è tutta una vita da finire, moltiplicandola di pagina in pagina (e basta con 'sta storia del premio: non è il Nobel a mancare a Roth, semmai il contrario, peggio per loro). C'è ancora un sacco di roba da leggere e dolore da scrostare. E le stelle sono importanti.