Milano

Expo, è pizza la parola più amata: nel gusto vince l'Italia dei primi e degli ultimi

La più conosciuta al mondo, con il caffè espresso al secondo posto: i risultati del sondaggio della Società Dante Alighieri sui vocaboli del cibo che premia anche la lasagna, la carbonara e l'amatriciana, il gelato e il risotto. Un viaggio culinario celebrato anche dalla letteratura
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Prima la pizza, secondo l'espresso, terza la lasagna. Quindi la carbonara e l'amatriciana, il gelato e il risotto, la mozzarella, la parmigiana, i tortellini. Ne esce un'Italia che predilige i primi e gli ultimi (fra un dessert e un bel caffè), con un piatto unico, la pizza nazional-popolare – esportata, insieme alla parola, in tutto il mondo –, a farla però da padrone assoluto. A rileggerle tutte e dieci, le parole più gettonate del gusto italiano, viene da collegarle ai poeti, ai narratori, ai drammaturghi, ai giornalisti che se ne sono impadroniti lungo i secoli. Un'avventura nell'avventura, perché gli amici, i colleghi, gli allievi che le hanno raccontate, nel volume collettivo che ho diretto per la Società Dante Alighieri (Peccati di lingua. Le 100 parole italiane del gusto, Rubbettino), ne hanno in molti casi recuperato tante vicende legate proprio alla storia della letteratura, del giornalismo, del teatro.

LE 100 PAROLE DEL GUSTO - LA CLASSIFICA
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Paolo D'Achille ci ricorda le pizze da un soldo, consumate a colazione, a cena, a pranzo nei bassi partenopei di fine Ottocento, di cui parla Matilde Serao nel Ventre di Napoli (1884): “Vi sono anche delle fette di due centesimi, pei bimbi che vanno a scuola: quando la provvista è finita, il pizzaiolo la rifornisce, sino a notte”; lo stesso D'Achille, parlando del caffè espresso, ne salda il ricordo alle macchine produttrici e ai loro vapori, suoni e odori “come si sprigionano dalle bocche dei bar” nella Sicilia di Elio Vittorini (Le donne di Messina, 1949). Le lasagne di Vera Gheno e Alessandro Andreolli risaltano, nel ricordo di Paolo Monelli (Il ghiottone errante, 1935; 2a ediz.: 1947), per il loro valore simbolico: “Ho letto libri sacri e profani, ho cercato in mille volumi certezze e consolazioni; ma nessun libro vale questo volume di lasagne verdi che vi mettono innanzi i sagaci osti bolognesi. Fra pagina e pagina è un vischio di formaggio, un occhieggiare di tartufi, un brulichio di regaglie preziose. Sfogliate, divorate pagine: è un decameroncino, un manuale di filosofia stoica, una consolante poesia che vi fa contenti a vivere”.

La carbonara di Matteo Guenci e Francesco Lucioli si fa particolarmente apprezzare in un racconto (Il pensatore) di Alberto Moravia, che ne fa un piatto “maschio” (consumato in un ristorante della capitale): “Lui prese la carta come se fosse stata una dichiarazione di guerra e la guardò, brutto, un lungo momento, senza decidersi. Poi ordinò per se stesso tutta roba sostanziosa; spaghetti alla carbonara, abbacchio con patate, puntarelle e alici. Lei, invece, roba leggera, gentile”. Fabio Ruggiano fa invece sosta sulle collodiane Avventure  di Pinocchio (1883), con la parmigiana sposata alla trippa per la soddisfazione del degno compare della Volpe: “Il povero Gatto, sentendosi gravemente indisposto di stomaco, non poté mangiare altro che trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di trippa alla parmigiana: e perché la trippa non gli pareva condita abbastanza, si rifece tre volte a chiedere il burro e il formaggio grattato!”.

Se Italo Calvino, nel Barone rampante (1957), con una nota su mangiagelati (“voleva dire abitante delle ville, o nobile, o comunque persona altolocata”), ci fa riandare con la memoria alle frequentazioni aristocratiche del gelato, Carlo Emilio Gadda rende patriottica giustizia al risotto alla milanese (ai suoi occhi, per l'appunto, il “risotto patrio”) e Alessandro Tassoni, nella Secchia rapita (1624), fa assurgere a dignità poetica i “tortelletti”: “Tutte nostre saran senza sospetti / queste ricche campagne e questi armenti; / la salciccia, i capponi e i tortelletti / da casa ci verran cotti e bollenti, / e dormiremo in quegli stessi letti / dove ora dormon le nemiche genti”.

Ma anche su molti dei restanti 90 prodotti gastronomici accolti in Peccati di lingua se ne potrebbero raccontare delle belle. Gioacchino Rossini, si rammenta con una citazione riportata nella scheda dedicata ai maccheroni, disse una volta di sé di essere un “pianista di terza classe” ma il “primo gastronomo dell'universo”. Nella montaliana Un mese tra i bambini, pubblicata in Satura (1971), l'irrestistibile finocchiona porta i pargoli a schifare i cibi deputati: “I bambini non hanno / amor di Dio e opinioni. / Se scoprono la finocchiona / sputano pappe e emulsioni”. E Claudio Giovanardi, trattando della porchetta, riporta i versi iniziali di una poesia del tarquiniese Titta Marini (1902-1980): “Porchetta, / fior de porcareccia, quanno / tu leggerai ’sto fojo che te manno, / penza all’amore eterno che te porto. / Io t’amo a peso vivo e a peso morto. // Per te me so’ ridotto tutta pelle / che fodera mezz’oncia de ventresca, / e me fa l’onde su le costarelle, / so’ diventato ’na saracinesca! / Piagno a penzà che nun ciò più la panza / grassa da maresciallo de finanza”.

Non poteva mancare Giuseppe Gioachino Belli, che nel sonetto La scampaggnata (16 novembre 1834) cita gli “strozzapreti cotti cor zughillo”. Li descrive come “cannelletti di pasta prosciugata, lunghi un pollice”, e dopo aver definito “sugo di stufato” il “sughillo” (antenato del ragù), aggiunge sugli strozzapreti: “io nun pozzo capì ppe cche rraggione / s'abbi a dì cche strozzino li preti: / quanno oggni prete è un sscioto de cristiano / da iggnottisse magara in un boccone / er zor Pavolo Bbionni sano sano”. Una sferzata all'indirizzo di quei peccatori di gola che erano gli uomini di Chiesa, per la loro abitudine al “mangiar bene”. Sarebbero capaci di divorare il sor Paolo Biondi, la “prima corpulenza di Roma”, in un solo boccone.