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"Non buttarlo, riparalo". I volontari che salvano gli oggetti dimenticati

"Non buttarlo, riparalo". I volontari che salvano gli oggetti dimenticati
La sfida dei restarter: allungare la vita dei prodotti tecnologici
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ROMA. Loro ci mettono la testa, tu il telefonino scassato o la stampante bloccata; loro le mani, tu il fon che puzza di bruciato o lo stereo che si è mangiato il tuo cd preferito. E ora basta con tutta questa spazzatura inutile. Non si butta via nulla: si ripara.

Potete chiamarla una moda o una filosofia, o magari una lotta alla don Chisciotte contro nuovi mulini a vento fatti di fili e di microchip. Le aziende costruiscono oggetti sempre più piccoli, sempre meno riparabili? "Loro" schiaffano trucchi e soluzioni su Internet, aggirano le obsolescenze programmate e trovano come dare una seconda vita agli elettrodefunti che l'industria dei consumi vorrebbe farvi gettar via senza rimpianti, per poi farvi mettere in fila in un maxistore dietro all'ultima superofferta.

In Italia, e in altri otto Paesi europei, "loro" si chiamano Restarter: fanno ripartire gli oggetti altrui arrivati apparentemente al fine vita. Sono già cinque i gruppi attivi a Milano, Torino, Firenze, Aosta e Langhe-Roero, in provincia di Cuneo. Sono hacker "buoni" che combattono il consumismo inarrestabile delle multinazionali organizzando feste a tema, i Restart party, ospitate in sale messe a disposizione da un'infinità di associazioni. Tutto gratuito, tutto volontario.

Si danno appuntamento su Facebook: chi porta un oggetto partecipa come può al tentativo di ripararlo. Ottiene informazioni, strumenti e aiuto. Ma non sono negozi in cui abbandoni il tuo oggetto e torni quando la riparazione è finita: qui si lavora in prima persona, come si faceva una volta quando, prima di buttar via qualcosa, si provava ad accomodarlo. Un'era geologica fa.

Non tutto si riesce a riparare. Ma si tenta insieme, e se si scopre che servono pezzi di ricambio i restarter ti aiutano a trovarli: il tuo oggetto moribondo tornerà a vivere al prossimo party. In Toscana, per esempio, sarà il 10 giugno alla Fiera della trasparenza di Livorno. A Torino, l'ultimo è stato il 14 maggio e il prossimo, il 30esimo, sarà domenica prossima: "Alcuni volontari con competenze tecniche aiuteranno e insegneranno ai partecipanti ad aggiustare i propri dispositivi rotti per evitare di farli diventare rifiuti, oltre a riadattare i vecchi computer ancora funzionanti ma inutilizzati, con un sistema operativo gratuito adatto anche ai meno esperti".
Sono l'ala italiana del Restart Project di Londra, inventato da due ragazzi uno dei quali - Ugo Vallauri - è italianissimo. Il progetto ha un amico giurato: l'ambiente. Meno rifiuti, meno anidride carbonica. Ma ha anche un nemico: i riparatori professionali, che lo vedono come il tentativo di regalare ciò che essi vendono: la competenza e gli strumenti. In realtà, il loro business è sempre più esiguo. Le multinazionali non hanno alcun interesse a produrre oggetti riparabili. Quel che si rompe si ricompra, e il fatturato cresce.

Ma loro, i restarter, non ci stanno. E il movimento è un'onda mondiale, cresce al ritmo della crisi, che rende sempre più insostenibile la corsa a ricomprare. Mentre i Restart party e i Repair cafè (che non si occupano solo di elettronica, ma di oggetti in genere: la formula inventata da Martine Postma esordì in un caffè di Amsterdam nel 2009, e ora è diffusa in mezza Europa) combattono sul campo la resistenza degli oggetti a farsi riparare, il movimento diventa politico, e punta a sfidarne gli artefici: i loro demoni sono il consumismo e la globalizzazione. Chiedono leggi che condannino l'obsolescenza programmata e obblighino le multinazionali ad accompagnare i loro prodotti con i manuali di riparazione, come venti o trent'anni fa. E ci riescono, in qualche caso: in Francia e in Germania, per esempio. In Italia non ancora, però: "Qui - spiegano - la legge è impantanata in Parlamento".