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Politica

Trump telefona al mondo (e ci litiga). A ogni chiamata, un caso diplomatico. 6 nemici in 4 continenti in 48 ore

Se telefonando... Tutte le litigate di Trump con i leader mondiali

Ogni volta che Donald Trump prende in mano il telefono, una spia rossa si accende da qualche parte del mondo, segno che il neo presidente ha fatto infuriare un altro leader straniero. Talvolta sono telefonate dirette, come quelle (finite malissimo) con il presidente del Messico Enrique Peña Nieto e il premier australiano Malcolm Turnbull. Altre volte sono dichiarazioni esplosive alla stampa, come l’attacco alla Germania accusata di dumping valutario ai danni di Usa e Ue o la retromarcia con Israele, a cui ora Trump raccomanda di non procedere con i nuovi insediamenti, dopo aver fatto del sostegno al governo di Benjamin Netanyahu uno dei baluardi della sua politica estera. Altre volte ancora lo strappo è concentrato in 140 caratteri, come mostrano i tweet contro l’Iran, bersaglio negli ultimi giorni di accuse durissime da parte del consigliere di Trump per la sicurezza nazionale, Michael Flynn. Al di là dello strumento utilizzato, resta il dato di fatto: in sole due settimane, The Donald è riuscito a litigare con capi di Stato e di governo a tutte le latitudini, in tutti gli emisferi. Una costatazione che preoccupa i diplomatici americani, che iniziano a chiedersi: se fa così al telefono, come immaginarlo al G20?

Come scrive Politico.com, questo stile decisamente imprevedibile sta mettendo in allarme sia i suoi sostenitori che i suoi avversari. Un conto infatti è mostrarsi fedele alla promessa elettorale di “mettere l’America al primo posto” privilegiando politiche protezioniste e isolazioniste, un altro è trasformare ogni occasione di contatto in un caso diplomatico. Alcune cancellerie straniere starebbero addirittura rivedendo il loro approccio alle telefonate e agli incontri con il nuovo presidente. Dopo la premier britannica Theresa May, che se l’è cavata abbastanza bene malgrado i rimproveri della Regina per aver avuto troppa fretta nell’invitare Trump a Londra, i prossimi saranno il primo ministro giapponese Shinzo Abe (10 febbraio) e il leader israeliano Netanyahu (15 febbraio), il cui idillio con il nuovo inquilino della Casa Bianca sembra già ridimensionato. Anche a Tokyo e Gerusalemme serpeggia una certa preoccupazione per le “sparate” di The Donald, visto che in dieci giorni sembra capace di litigare – almeno a parole – con mezzo mondo.

A prendere le difese del presidente è, come al solito, la sua consulente Kellyanne Conway. “Chiunque scopra soltanto adesso che il presidente Trump è un uomo risoluto e deciso, che non usa giri di parole e che mette l’America e i suoi interessi al primo posto, penso abbia trascorso gli ultimi due anni chiuso dentro una caverna”, ha detto la fedelissima Conway a Fox News. E in effetti il linguaggio utilizzato da Trump nel suo esordio di presidenza è perfettamente in linea con quanto dimostrato durante la campagna elettorale: un linguaggio duro e bellicoso che spesso sfocia nell’insulto, come sintetizzato perfettamente da questa mappa interattiva del New York Times che raccoglie tutti gli insulti del presidente (e siamo solo a quelli via Twitter). Uno stile comunicativo che, se da un lato rassicura la sua base elettorale, dall’altro semina disagio in un mondo diplomatico abituato a ben altri riti e formalità.

La litigata con il premier australiano, in particolare, ha scioccato molti diplomatici stranieri e funzionari del Dipartimento di Stato. L’Australia, infatti, è uno degli alleati più stretti degli Usa, con cui le divergenze sono molto rare. Ebbene, Trump è riuscito a litigare anche con Turnbull in una telefonata che è stata descritta come “burrascosa”: sarebbe dovuta durare un’ora, ma si è conclusa bruscamente dopo soli 25 minuti. Una conversazione “animata” confermata non solo da Canberra, ma dallo stesso Trump con il solito tweet: "Potete crederci? L'amministrazione Obama si è detta d'accordo nel prendere migliaia di immigrati illegali dall'Australia. Perché? Rivedrò questa stupida intesa". Il riferimento è al patto grazie al quale Washington ha accettato di prendere 1.250 profughi tra quelli confinati su due isole australiane del Pacifico. La maggior parte provenienti da Iran, Iraq e Somalia, tre dei sette Paesi che subiscono le restrizioni del bando varato dalla Casa Bianca.

Ancora più pesante lo scontro con il presidente messicano Peña Nieto. Dopo il botta e risposta sul muro, Trump ha minacciato l’invio di truppe Usa se i militari messicani non saranno in grado di fermare quelli che ha chiamato i "bad hombres". Il presidente ha poi liquidato lo scambio come una “battuta scherzosa" mentre si parlava del rafforzamento della cooperazione Usa-Messico sul fronte della lotta al narcotraffico: "Non state facendo abbastanza per fermarli. Penso che i vostri soldati abbiano paura. I nostri no, potrei inviarli laggiù per occuparsi della questione". Non suonano di certo come uno scherzo, comunque, le parole del nuovo segretario alla sicurezza nazionale John Kelly, che ha confermato il via al muro in pochi mesi con l'obiettivo di finirlo entro due anni.

Dal Messico all’Iran, altro continente ma stesso piglio diplomatico. In questo caso è stato il suo consigliere alla sicurezza nazionale Flynn ad accendere la miccia. Flynn ha accusato l’Iran di avere “un atteggiamento destabilizzante in tutto il Medio Oriente”, citando in particolare lo Yemen, e ha spiegato che secondo l’amministrazione Trump un recente test missilistico compiuto dall’esercito iraniano – confermato dal ministro della difesa iraniano – viola gli accordi presi in passato. Di fronte alla risposta risentita di Teheran – che ha definito “prive di fondamento, ripetitive e provocatorie” le osservazioni formulate da Flynn – Trump ha messo il carico da novanta, aprendo alla possibilità di un’azione militare americana contro l’Iran. A completare l’opera una raffica di tweet contro la Repubblica islamica.

The Donald non fa stare tranquilli neanche i Paesi amici come Israele, che se da un lato osserva con soddisfazione il pugno duro sventolato dalla nuova amministrazione con l’Iran, dall’altro si trova a fare i conti con la marcia indietro di Trump su insediamenti e ambasciata Usa a Gerusalemme. In una dichiarazione al Jerusalem Post, Trump ha avvertito il governo di Benjamin Netanyahu: "la costruzione di nuovi insediamenti o l'ampliamento di quelli esistenti al di là degli attuali confini potrebbe non aiutare il raggiungimento" della pace con i palestinesi. Anche se con toni cauti e più gentili rispetto alle precedenti amministrazioni, inclusa quella di Barack Obama, la Casa Bianca di Trump invia a Israele un messaggio chiaro sugli insediamenti, pur precisando che una posizione ufficiale sulle colonie non è ancora stata presa. E Trump intende discuterne con il premier Netanyahu nel corso della sua visita a Washington nelle prossime settimane. Intanto però il messaggio è stato inviato, con la Casa Bianca che in una dichiarazione al The Jerusalem Post, riportata dalla stampa americana, si spinge anche oltre chiedendo "a tutte le parti" di non intraprendere "azioni unilaterali che potrebbero mettere a rischio la capacità di fare progressi" verso la pace, "inclusi annunci su insediamenti".

Il cambio di rotta arriva dopo l'incontro con il Re di Giordania, Abdullah II, giunto a Washington senza un appuntamento ufficiale con il presidente, ma che ha spuntato un faccia a faccia con il vice presidente Mike Pence, e un colloquio con Trump. La Giordania non ha nascosto i suoi timori sulla promessa di Trump di spostare l'ambasciata a Gerusalemme, mossa che Obama e altri presidenti hanno rifiutato per paura di una risposta violenta. La Casa Bianca di Trump ha frenato già sullo spostamento dell'ambasciata, precisando che ha iniziato solo a discutere dello spostamento. L'intervento della Casa Bianca, dietro il quale sembrerebbe esserci il consigliere Jared Kushner, arriva dopo che Netanyahu ha annunciato la costruzione di un'ondata di nuove case, forte dell'appoggio incondizionato di Trump.

Sempre attraverso la stampa è arrivato l’affondo della nuova amministrazione alla Germania di Angela Merkel, accusata dalle colonne del Financial Times dal super consigliere di Trump al commercio Peter Navarro di utilizzare un euro “esageratamente sottovalutato” per "approfittarsi" degli Stati Uniti e dei suoi partner europei.

A sole due settimane dal suo insediamento alla Casa Bianca, Trump e la sua squadra hanno seminato litigi diplomatici da un capo all’altro del mondo, e tutto senza quasi spostarsi da Washington (ad eccezione del segretario alla Difesa James Mattis, che da Seul ha scatenato l’ira della Corea del Nord annunciando un rafforzamento della cooperazione militare con il Sud). Come sottolinea Politico, il caos diplomatico suscitato dallo “stile Donald” preoccupa diversi diplomatici. In molti faticano a immaginarsi un Trump che (senza fare danni) conversa con i leader mondiali al G7 di maggio in Sicilia o al G20 di luglio ad Amburgo. Anche perché, se continua di questo passo, il rischio è che con molti di loro si rivolga a malapena la parola.

È poi arrivata la minaccia di Al Qaida, secondo quanto riportato dal Washington Post. Nel comunicato si dice che Trump è un "incosciente" e ha accesso la "fiamma della jihad" con il raid in Yemen che ha ucciso dei civili. Il fatto che il raid sia arrivato pochi giorni dopo l'impegno di Trump a sradicare l'Isis "ci mostra chiaramente che la minaccia non è diretta solo ai militanti islamici, ma a tutti i musulmani".

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