20 Anni Repubblica

Quegli esperimenti tra Livorno e Roma, ma non eravamo la Silicon Valley

Il fermento degli anni Novanta, le accelerazioni e le frenate. Mentre Repubblica.it andava online, pochi altri si interrogavano sul futuro dell'editoria. E pochissimi trovarono la formula giusta

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Quando sul video cominciarono a scorrere decine di migliaia di parole che s'andavano a collocare - una magìa - nelle gabbie grafiche della homepage e delle pagine di dettaglio delle tredici edizioni locali, l'emozione ebbe la meglio. Uscii sul terrazzo al secondo piano del palazzo in stile littorio di viale Alfieri, a Livorno, e gridai: ce l'abbiamo fatta! In quattro - Giuseppe Burschtein, Marco Gasperetti, Gabriele Marchegiani e io - avevano appena aiutato l'autarchico sistema editoriale 3P a partorire il sito del più diffuso giornale locale della catena Finegil-Gruppo Espresso, il Tirreno. Più che un sito, era la riproposizione digitale del prodotto destinato alla carta, reso fruibile in modo innovativo: per esempio, dall'elenco alfabetico di tutti i nomi contenuti nel quotidiano si risaliva, con un clic, all'articolo relativo. Oggi qualsiasi ragazzino un po' scafato saprebbe fare di meglio, ma a me quel pomeriggio dell'ottobre 1997 sembrò un gigantesco passo avanti. In termini di ricavi non immaginavo dove ci stavamo dirigendo, però ero certo che si dovesse andare avanti. Nel progetto che avevo consegnato all'amministratore delegato Marco Benedetto nel giugno 1997 avevo proposto, con non poca ingenuità ma qualche preveggenza, un'ipotesi che sarebbe diventata attuale quindici anni più tardi: "Nel nuovo sito saranno gratuite l'informazione dalla Toscana e quella di servizio regionale e locale. Metteremo invece in rete a pagamento in abbonamento tutta l'informazione iperlocale del quotidiano cartaceo, ossia quella di cui siamo spesso fornitori esclusivi". Un paywall ante-litteram.

La sera, poche ore dopo il primo "travaso" dei contenuti nel sito iltirreno.it, chiamai Vittorio Zambardino, che ovviamente non rispose al telefono. Da dieci mesi era impegnato, con Gualtiero Peirce, Ernesto Assante e qualcun altro, nell'impresa di Repubblica.it, che assemblava ogni giorno, dall'alba al sera inoltrata, un ricco e autonomo notiziario online. Pensavo a loro come ai cugini ricchi ai quali l'editore, che era lo stesso per entrambi, non lesinava soldi e forze. Sbagliavo. Anche Vittorio doveva smontare un pezzetto per volta lo scetticismo dei vertici del gruppo e far finta di non sentire le battute dei colleghi convinti dell'immortalità della carta.

Non conoscevo nessun altro, in Italia, che stesse facendo qualcosa di simile a quanto a Livorno e a Roma andavamo sperimentando, mentre negli anni precedenti avevo verificato di persona come negli Stati Uniti si stesse impostando una seria transizione digitale. Tra il 1993 e il 1996 avevo visitato colossi onusti di gloria come il New York Times, il Miami Herald e l'Atlanta Journal and Constitution, testate regionali come l'Hartford Courant, il Des Moines Register, il Seattle Post-Intelligencer, il Seattle Tribune, il Salt Lake City Tribune, il Deseret, il New Orleans Times-Picayune, giornali locali come il San Bernardino Sun, il Reno Gazette-Journal, l'Austin American-Statesman. Gli approcci erano variegati, l'obiettivo comune: tenere vicino il lettorato più giovane.

Nell'aprile del 1993 il mondo dell'editoria era effervescente come mai prima nel secondo dopoguerra. Raymond A. Jensen, CEO dell'Hartford Courant, uno dei più antichi quotidiani della East Coast, mi disse testualmente: "L'obiettivo mio e del gruppo al quale appartengo, Time Mirror, è trasformare i giornali come il Courant in fonti multimediali d'informazione".  Per "informazione" Jansen intendeva "notizie, iniziative di servizio e pubblicità di servizio che non abbiano più come unico veicolo la pagina del giornale: viaggiano e sempre più viaggeranno via telefono, fax, televisione e computer".

Ma presto i dubbi si moltiplicarono anche in America. Dall'entusiasmo del 1993 si passò al timore dell'autocannibalizzazione del 1996. Di ritorno da un viaggio di studio oltreoceano, nell'aprile 1996 scrissi in un report per l'amministratore delegato e il presidente Carlo Caracciolo: "Pur non rinunciando a diversificare i mezzi per raggiungere la potenziale utenza, i grandi editori sono tornati a considerare la carta stampata il presente e il futuro dell'azienda. Per Gannett è la conferma di una politica coerente, che da tempo ha posto come priorità la salute dei quotidiani; Knight-Ridder ha deciso di bloccare per ora le sperimentazioni più avanzate; altri, come Cox, cercano di tenere ben separati i vari settori operativi per cui giornali, servizi on-line, televisioni e radio interagiscono poco. Tutti puntano, dopo una parentesi di disamoramento, sulla capacità dei giornali tradizionali di mantenere lo storico doppio ruolo di specchio e voce delle comunità, grazie alla versatilità e all'affidabilità dell'informazione su carta".

È facile, oggi, giudicare quella reazione come un riflusso irrazionale: i bilanci di fine anno, che negli Usa si tirano a giugno, dimostravano puntualmente che con l'informazione sulle piattaforme digitali non si sarebbe mai pareggiata la redditività della carta. Spaventati, alcuni publisher cominciarono a studiare - fu il caso dei proprietari di Knight-Ridder, il numero due del settore - come uscire di scena con le tasche ancora foderate di dollari.

In Europa ci si era mossi con più cautela. Solo nei paesi scandinavi l'evoluzione digitale non subì, dopo gli esordi del '94 e '95, un rallentamento. La Gran Bretagna seguì passo passo lo stop-and-go americano. In Germania la carta continuava a macinare profitti, quindi il problema venne rinviato di qualche anno. In Francia e Spagna editori e redazioni non impostarono alcunché di significativo in fatto di innovazione. In breve Repubblica.it si trovò a essere, a livello continentale, una delle riconosciute eccellenze in materia di informazione digitale. Semplice, velocissima, autorevole: anche online era la testata più in sintonia con gli italiani.

Io allora non li frequentavo - ci comportavamo come piccoli gruppi di alchimisti che non rivelavano a nessuno il segreto della pietra filosofale - ma nel nostro paese, a macchia di leopardo, altri coraggiosi editori e giornalisti ci stavano provando. La storia dei giornali che s'avventurano sulla rete era cominciata nel 1994 in Sardegna, regione fino ad allora periferica in quanto a sviluppo tecnologico. Il primo quotidiano europeo a dotarsi di un vero sito era stato, nell'anno della discesa in campo di Silvio Berlusconi, l'Unione Sarda. Non si trattò di un unicum isolano: muovendo proprio da Cagliari, negli anni Novanta l'innovazione digitale di massa visse due coraggiose imprese con il primo grande provider Internet, Video On Line, fondato nel 1993 dallo stesso proprietario dell'Unione, il visionario e controverso imprenditore Niki Grauso, e con la prima compagnia italiana, Tiscali, creata a fine millennio da Renato Soru, che osò sfidare le telecom sia nella telefonia fissa sia nella fornitura di connettività a basso prezzo. Ma l'Italia non era la California né la Svezia, e la Sardegna non era Silicon Valley. Unionesarda.it, pur investendo in uomini e risorse tecniche, faticò a imporsi e in breve venne depotenziata. L'anno successivo si moltiplicano le iniziative, dall'ambizioso e velleitario esperimento de l'Unità diretta da Walter Veltroni a quelli, più limitati e concreti, della Stampa, del Corriere della Sera e della Gazzetta dello Sport. Anche il manifesto si gettò nella mischia.

A noi che, dalla periferia, seguivamo da vicino l'evoluzione dell'informazione apparve subito chiaro che la strada imboccata da Repubblica.it era quella giusta. La sua intuizione fu separare il notiziario web dai contenuti destinati alla carta perché si rivolgevano a pubblici diversi, solo in minima parte sovrapposti. Ben presto, Repubblica.it soppiantò in ogni redazione d'Italia il rozzo Televideo tenuto sott'occhio per non "bucare" le ultim'ora. Di più: ogni giorno cresceva il numero di italiani che si rendeva conto di quanto il sito affidato alle cure di Zambardino e poi di Mario Tedeschini Lalli fosse indispensabile per mantenere i contatti con quanto accadeva nel paese e nel mondo.

Pur saldamente ancorato alla carta stampata, il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari intuì tutta la portata del cambiamento. Incontrandomi sulle scale nell'autunno del 1998, appena trasferito nella capitale per partecipare alla fondazione di Kataweb, mi disse: "Non capisco perché un giornalista come te si sia messo in testa di occuparsi di quelle astrusità tecniche. Però fai bene". Qualche tempo prima, in visita pastorale ai locali angusti della redazione digitale, aveva seguito con attenzione quanto gli stavano spiegando e poi era sbottato: "Ora vado a pranzo. Ma non torno: ho capito che siamo disoccupati". Il nuovo direttore insediato nel maggio 1996, Ezio Mauro, seppure altrettanto innamorato della carta, decise subito che l'onda digitale andava cavalcata, non arginata. È suo il merito se quel mare cominciò a essere esplorato esattamente ventun anni dopo la nascita di Repubblica, il 14 gennaio 1997.