Referendum Costituzionale 2016

Le dimissioni di Renzi e il rischio del salto nel buio

Matteo Renzi (ap)
Il messaggio che è arrivato, seppur nella sua pluralità di significati, è chiaro e ha avuto la conseguenza di portare Renzi alle dimissioni
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UN’AFFLUENZA straordinaria, una partecipazione inaspettata per dimensioni con un risultato netto che conferma l’orientamento dei sondaggi ma superando ogni previsione. Bocciatura sonora della riforma votata dal Parlamento ma anche bocciatura dell’esperienza di governo di Matteo Renzi.

Un anno fa il premier ebbe la malaugurata idea di trasformare il referendum costituzionale in un plebiscito su se stesso, in una sorta di nuova incoronazione, sperando nel bis delle Europee del maggio 2014, non rendendosi conto che non esiste governo nelle democrazie occidentali che sopravviverebbe a un voto secco dopo mille giorni. Nemmeno Merkel ne uscirebbe con una vittoria. Guardate ai presidenti o ai premier che ci sono in giro, nessuno governa con un consenso superiore al 40 per cento. E a nessuno di loro viene in mente di sfidare la sorte permettendo alle opposizioni e ai malumori di sommarsi e di contarsi.

Il messaggio che è arrivato, seppur nella sua pluralità di significati, è chiaro e ha avuto la conseguenza di portare Renzi alle dimissioni. Un passo inevitabile visto il fatale combinato di un’affluenza altissima e di un No nettissimo. Renzi lo ha riconosciuto con un discorso di grande onestà e chiarezza, in cui non ha cercato scusanti e si è assunto la responsabilità della sconfitta. Il premier non poteva che lasciare Palazzo Chigi. Se non lo avesse fatto immediatamente sarebbe stato accusato di voler restare incollato alla poltrona e ogni uscita pubblica, dibattito o proposta politica sarebbero diventati un calvario.

La vittoria del No ha tantissimi padri, anche se ce ne sono alcuni che sono corsi ad intestarsela un minuto dopo la chiusura dei seggi, e mille motivazioni diverse. Oltre alla mobilitazione di chi ha votato per evitare ogni modifica alla Costituzione si sono messi insieme i voti del Movimento 5Stelle, della Lega, dell’area della destra populista e di una parte del mondo berlusconiano insieme a quelli di una parte importante del Pd, della sinistra anti Renzi e delle frange anti sistema. A questo, credo vada aggiunto un voto che non aveva alcun legame con il merito della riforma costituzionale e nemmeno con l’appartenenza a un’area politica ma era dettato dalla rabbia, dalla frustrazione e dal malcontento: voto di chi dice No alla disoccupazione, alla precarietà, all’incertezza e all’impoverimento, ma anche ai migranti e alle politiche dell’accoglienza.

E ora? Porre la domanda a chi ha votato No porterebbe a risposte completamente diverse, perché c’è chi ha votato contro la riforma per spirito di conservazione, per non cambiare la Costituzione, e chi lo ha fatto invece per cambiare tutto, nella speranza di rovesciare completamente il tavolo. Come queste istanze possano stare insieme è difficile immaginarlo, anche perché questo sessanta per cento non può essere maggioranza di governo o proposta politica.

Ci sarà tempo per analizzare il voto, per capire dove il malcontento è più forte e radicato, e ci sarà tempo per analizzare gli errori del premier, per individuare il momento in cui ha perso presa sul Paese, ma ora la realtà è il rischio di un ritorno alla palude e all’instabilità. Uno scenario di cui l’Italia non ha proprio bisogno.
Questa mattina cominceremo subito a fare i conti con l’instabilità, quanto siamo vulnerabili ce lo diranno i soliti indici (spread e Borse) e dobbiamo sperare in un governo provvisorio che in tempi brevissimi abbia la forza di rassicurare e di mettere in sicurezza le banche. Se ciò non accadrà il prezzo non lo pagherà la finanza ma ogni risparmiatore italiano, ogni possessore di case con un mutuo e ognuno di noi.

Non si vede all’orizzonte nessuna idea forte per rispondere alla crisi del Paese. Non ce l’ha Beppe Grillo, il cui Movimento quando deve fare i conti con la proposta e con la realtà dell’amministrazione si trova in grave difficoltà come dimostra la paralisi di Roma. Diverso appare il discorso di Torino, ma tale è in città l’impronta sabauda che anche lasciata sola funziona e se la sindaca sia capace di fare la differenza non lo sappiamo ancora. Manca un’idea anche a Salvini, che prima dovrebbe avere un programma e convincere il resto della destra delle sue presunte capacità di leader. Le idee da tempo mancano infine alla cosiddetta “minoranza” pd, che ora cercherà di tornare maggioranza ma che da troppo tempo vive di conservazione e si definisce più per contrapposizione che per proposta.

La riforma del Sì non era delle più entusiasmanti ma non lo è nemmeno la sensazione che tutto resti sempre uguale, che sia impossibile cambiare le cose, che anche alle prossime elezioni voteremo per il Senato e che rimarremo inchiodati alla lentezza di avere due rami del Parlamento impegnati nello stesso identico lavoro.
Ora assisteremo a una resa dei conti a sinistra tra chi vuole una restaurazione e chi ha predicato la rottamazione e a uno scontro generale tra chi pensa che il sistema sia da buttare e chi crede che le istituzioni siano invece da salvare.

C’è da augurarsi che sia a destra (come è accaduto in Francia) sia a sinistra si mettano in campo opzioni di razionalità politica, che nel Pd si archivi la stagione delle risse e si lavori per contrastare i populismi. Per non lasciare il campo libero a chi predica irrazionalità e propone ricette devastanti che disgregherebbero ancora di più il tessuto sociale.

Di questa giornata per molti versi storica colpisce soprattutto un dato ed è la partecipazione appassionata dei cittadini, una sorpresa che fa giustizia delle tante analisi sulla disaffezione al voto. Questi italiani, non importa se hanno votato No o se hanno scelto il Sì, meritano una proposta di Paese credibile, che parli di futuro e non di salti nel buio.