Esteri

Ungheria, 60 anni fa si spegneva il sogno del socialismo dal volto umano

Un'immagine della rivolta del 1956 (reuters)
Il processo di democratizzazione avviato dal premier comunista riformatore Imre Nagy fu soffocato nel sangue dalle forze armate sovietiche. Oggi quella rivoluzione viene commemorata in tono minore: il leader nazionalconservatore Orbán non vuole mettere a repentaglio l'amicizia con Putin
4 minuti di lettura
BUDAPEST - Tutto cominciò nello splendido centro storico di Budapest sessant'anni fa, oggi il mondo dei Millennials non lo sa o lo ha dimenticato. Le straordinarie immagini del'Istituto Luce forse ci risveglieranno la memoria. Ungheria, 23 ottobre 1956. I cecchini della AVH, Allam védelmi hatosàg, l'odiata e temuta polizia segreta, cominciarono all'improvviso a sparare sulla grande folla della manifestazione pacifica per la democratizzazione, voluta dagli studenti in appoggio al premier comunista riformatore Imre Nagy.

Sangue, morti per le strade, reazioni esasperate e violente della piazza. E poche ore dopo tutto precipitò: guidate dal giovane, 'smart boy' comunista riformatore anche lui, il generale Pàl Maléter, le forze armate nazionali si schierarono con gli insorti, e indussero l'Armata rossa alla ritirata. Ungheria '56, sessant'anni dopo: oggi quello splendido paese mitteleuropeo è libero, membro di Ue e Nato.

Eppure il popolare premier nazionalconservatore Viktor Orban sembra preferire commemorazioni low profile, per quella che fu una delle prime rivoluzioni democratiche di quell'Europa sottoposta allora all'Impero sovietico. Perché Orbàn - attaccato dalla Ue per limitazioni pesanti alla libertà di media e corte suprema e alla divisione dei poteri, accusato dalle ong per la linea dura anti-migranti e la riabilitazione del dittatore Miklòs Horthy autore delle prime legge razziali antisemite e principale alleato di Hitler nell'Operazione Barbarossa, l'attacco all'Urss - oggi è il miglior amico del presidente russo Vladimir Putin nella Ue e nella Nato: ammira il suo modello autoritario. Ungheria, 60 anni dopo: anniversario triste, commemorato male, senza tutto il rispetto dovuto alla Memoria. 

GUARDA IL VIDEO Archivio Luce
       
Budapest, 23 ottobre 1956. Nell'Europa divisa dalla guerra fredda tra mondo libero e Impero del Male, il paese era allo sfascio: economia un tempo mitteleuropea in rottami, fame diffusa, classe media e imprese distrutte, mercato nero quotidiano, oltre centomila prigionieri politici in un paese di meno di 10 milioni di abitanti. Torture ed esecuzioni segrete divenute pratica quotidiana nelle carceri della AVH. Così non possiamo continuare, dissero in riunioni del Comitato centrale Nagy, Maléter, i loro seguaci. Chiesero le dimissioni dei vertici del regime. La gente fu con loro, decise di rischiare in piazza. Sapendo bene che il premier Nagy non aveva il controllo di polizia e servizi.
        
I cecchini spararono, la collera esplose. Guerra civile improvvisa negli splendidi boulevard di Budapest, invano il regime chiese l'intervento dell'esercito. Nel suo stato maggiore alla caserma Killian, Pàl Maléter dette ai soldati l'ordine di schierarsi con il popolo. "Lo ricordo ancora, lui l'amore della mia vita, deciso a rischiare tutto", mi confessò anni dopo sua moglie Judit, una Vivien Leigh ungherese. Reazione decisa, immediata: soldati e insorti contro la AVH e contro le veloci ma deboli prime reazioni dell'Armata rossa occupante. Violenze in piazza, anche linciaggi degli agenti della AVH riconosciuti dai cittadini come i torturatori bestiali di ieri. E le statue del regime abbattute ovunque, ovunque la bandiera nazionale col buco al posto dell'emblema comunista imposto da Mosca.
        
Sembrò una vittoria, l'Armata rossa dopo i primi scontri con i soldati di Maléter si ritirò. Lasciò quasi tutto il territorio magiaro. Vennero le settimane della libertà. Nagy e il suo governo si misero subito al lavoro su progetti di riforme radicali: sistema socialista ma con libere elezioni, diritto alla neutralità, amnistia, diritto a lasciare il Patto di Varsavia, l'alleanza militare imposta dal Cremlino ai paesi occupati e ridotti a colonie sfruttate come il Congo lo fu dal Belgio.
        
Vennero i giorni e le settimane della Grande illusione, Orbàn oggi preferisce non parlarne troppo per non inimicarsi l'amico e compagno di modello autoritario Vladimir Vladimirovic Putin. Illusioni alimentate irresponsabilmente dall'Occidente: gli ungheresi liberi a termine contarono su un aiuto. Che sarebbe stato impossibile, salvo scatenare la terza guerra mondiale.
        
"I sogni muoiono all'alba", scrisse allora Indro Montanelli, straordinario cronista da Budapest libera per quelle poche settimane. L'Impero colpì ancora. Invano il presidente jugoslavo Tito cercò di consigliare a Mosca, e anche a Nagy, moderazione e ricerca di compromesso. Alla fine a Tito, leader del solo paese socialista indipendente da Mosca e in buoni rapporti col mondo libero (la Jugoslavia), non restò altro che proclamare l'allarme rosso militare e offrire a Nagy asilo nell'ambasciata jugoslava a Budapest. I sogni muoiono all'alba: nella prima settimana di novembre venne spietato e sanguinario il contrattacco dell'Armata rossa, si sentiva umiliata dai soldati di Maléter e aveva sete di vendetta. Decine di Panzerdivisionen, centinaia di migliaia di soldati dei corpi scelti, squadriglie e squadriglie di caccia Mig e bombardieri Iljushin carichi di bombe incendiarie, assaltarono all'alba Budapest e tutta l'Ungheria. Resistenza disperata, nemico troppo più forte, due settimane di combattimenti. Migliaia o forse decine di migliaia di morti, le statistiche furono poi in mano al regime  di Janos Kàdàr, il proconsole imposto. Due settimane di combattimenti disperati, stupri in massa da parte degli invasori, fuga in massa di circa mezzo milione d'ungheresi a piedi verso l'Austria che tanti dei migliori scrittori della vitale, splendida letteratura magiara raccontarono poi in libri pubblicati non in patria. Il peggio venne dopo. Centinaia, o più, di persone torturate, stupri ed esecuzioni in carcere. Fino all'inganno perfido teso da Kàdàr a Nagy e a Tito: 'consegnati, ti perdoneremo'. Tito diffidava, Nagy si fidò e finì processato e impiccato. Nei decenni successivi, Kàdàr comprò il consenso del paese sconfitto con consumismo (pagato con un iperindebitamento con l'Occidente) e con una censura ammorbidita per cineasti, scrittori, intellettuali, giornalisti.
        
Ungheria 1956, la rivoluzione vinta ma feconda, scrisse il grande François Fejto, intellettuale e storico immigrato. Nagy e Maléter furono esempio per le speranze di riformare il socialismo di Alexander Dubcek a Praga (stroncate anche quelle da un'invasione sovietica), poi della voglia di libertà dei dissidenti cecoslovacchi attorno a Vaclav Havel, e ancor più di Solidarnosc, il movimento democratico polacco che avviò la fine dell'Impero. Ci conoscemmo negli anni della guerra fredda, Fejto e io, quando una fine dell'oppressione sembrava a noi occidentali impossibile, ma non a lui né all'altro grande intellettuale ungherese scappato dopo il '56, Pàl Lendvai, poi alta sfera del Financial Times. Li rincontrai in quell'estate indimenticabile del 1989 al solenne funerale-riabilitazione di Imre Nagy, loro a fianco di Judit la vedova indomabile e fiera. A quella cerimonia il discorso più coraggioso fu tenuto da un giovane allora dissidente liberal, Viktor Orbán: "Fuori le truppe sovietiche occupanti". Bei ricordi, ma lontani. Orbàn, abilissimo trasformista è divenuto popolare premier nazionalconservatore al potere dal 2010. Riforme costituzionali, limiti a media, corte suprema, e secondo le ong occupazione dello Stato da parte del partito del premier (Fidesz) e amicizie ferree con gli oligarchi che lo appoggiano. Realtà diversa dai sogni di Nagy e Maléter che morirono all'alba. Oggi nei libri di testo di Storia magiari Orbàn e Horthy sono celebrati come patrioti più di Nagy e Maléter. Alla cerimonia ufficiale del resto oltre al presidente polacco non dovrebbero essere presenti altri leader di paesi democratici. Una foto di gruppo con Orbàn non piace a molti. Peccato per la memoria dell'eroico '56. E nessuno oggi nell'Ungheria di Orbàn in prima fila nel no ai migranti ricorda che allora i migranti, i fuggiaschi da guerra, orrore, violenze e morte erano ungheresi.