Spettacoli

CINEMA

Un film per Miles Davis, ritratto del genio da gangster del jazz

A "Immagini & suoni del mondo" abbiamo visto il film prodotto, scritto, diretto e interpretato dalla star Don Cheadle. Né biopic né documentario, ma un ottimo noir realizzato col crowdfunding e i soldi degli amici. Che da noi non ha ancora distribuzione. E nel quale si nascondono gli infiniti tormenti di uno dei più grandi artisti del Novecento. Fino al 23 il festival dei film sulla musica etnica da tutto il pianeta

8 minuti di lettura
Incastonato fra gli infiniti altri gioielli della corona in uno delle molte età dell’oro dell’esagerata avventura di Miles Davis - il monkiano ‘Round About Midnight (1955-1956), titolo anche del film di Tavernier su Dexter Gordon a Parigi, e Ascensore per il patibolo (1957), colonna sonora del film che il trombettista incise a Parigi su invito di Malle - Miles Ahead è il titolo di uno dei più celebrati dischi che il trombettista e compositore di Saint Louis ha cristallizzato in mezzo secolo di jazz. Meglio, di musica tout court. Che di pietre miliari è composto, con qualche rara eccezione appena al di sotto. Uscito nel 1957, Miles Ahead (Miles avanti, a se, a tutti, come sempre) vede il Divino di nuovo, dopo Birth of the Cool, assieme al genio di Gil Evans, il più fecondo fra tutti gli alter ego che Davis volle per sé. Chissà se sta fra questi primati di quel capolavoro il motivo che ha spinto Don Cheadle, attore di gran fama, a sceglierne il titolo per l’agognato film intorno a Miles Davis da lui scritto e interpretato. Che ha appena aperto la tre giorni di “Immagini & suoni dal mondo” (fino a domenica 23; www.multiculti.it), storica rassegna fiorentina di cinema etnomusicale e sorella minore di “Musica dei popoli”, tutta dedicata invece a concerti di musica etnicamente non banale.
  Viaggio in dieci film per nelle musiche del mondo. Organizzata dall’associazione Multi Culti, per la direzione artistica dell’etnomusicologo Leonardo D’Amico, “Immagini & suoni dal mondo”, a pochi giorni dal venticinquennale dalla morte di quel genio, ha scelto Miles Ahead per aprire, al cinema Alfieri di Firenze, le proiezioni dei dieci film dell’edizione 2016. Un’altra purtroppo rarissima occasione di vedere Miles Ahead. Che in Italia, a un anno dalla prima al New York Film Festival, poco meno da quello di Berlino e a pochi mesi dal Biografilm festival di Bologna, non ha ancora una distribuzione, come troppo spesso accade da noi alle produzioni senza mega budget né muscolose major alle spalle. Potrebbe però interessare a qualcuno sapere che Miles Ahead, uscito ad aprile 2016 nelle sale nordamericane per la Sony, che l’aveva acquistato nell’agosto del 2015, ha incassato 4 milioni e 800 mila dollari, essendone costati 344.582. E un film così, ci si può scommettere, quegli introiti li ha fatti a New York, Chicago, San Francisco e nella più rosea delle ipotesi in altre tre o quattro città.
 

Rsera Spettacoli - Miles Ahead

Così Miles diventa un gangster. Attore per grandi e piccini (fra i suoi tanti film Boogie Nights, Hotel Rwuanda, che gli valse la nomination all’Oscar, la tripletta Soderbergh con Out of Sight, Traffic e Ocean’s Eleven, i due sequel Tweelve e Thirteen, e ancora Crash, Brooklyn’s Finest, Iron Man II e III fino al recente Captain America: Civil War e il videogame), Don Cheadle è da anni, con Denzel Washington, Morgan Freeman, Samuel Jackson, Wesley Snipes, Jamie Foxx, Will Smith, onorevole membro del gotha degli attori afroamericani. Che accanto all’incarico di ambasciatore di buona volontà dell’Onu ed all’appassionata militanza contro i genocidi che, dopo aver girato Hotel Rwanda, ha avviato con Clooney, Pitt e Matt Damon nel progetto “Not in Our Watch Project”, non disdegna affatto la regia. E che con Miles Ahead si è consacrato anima e corpo ad una missione che ad un certo punto, più che impossibile pareva abortita. Malgrado l’avesse avviata col pieno consenso della famiglia Davis, che aveva approvato l’ipotesi di un film in cui il grandioso antenato diventasse un gangster (il titolo provvisorio durante la lavorazione, non a caso era stato Kill the Trumpet Player). Ma i race movie, i film cioè con cast solo afroamericano – tolto Spike Lee – negli Usa sono ancora un’impresa più che ardua. Perciò Miles Ahead non avrebbe chiuso il budget necessario senza, come ha raccontato Cheadle, il concorso di amici e parenti, di alcuni crodwdfunding e in assenza di una star bianca gradita ai mercati esteri. Come Ewan McGregor, divo ad alto contenuto fosforico, che ha trasformato l’impasse in un bel bonus.
  
Un giornalista furbetto e squattrinato. Perché il protagonista di Trainspotting, del prequel di Star Wars, di Moulin Rouge e American Pastoral (col film dal romanzo di Philip Roth, McGregor ha inoltre appena esordito nella regia), ha vestito con impeccabile, bisunta cialtroneria i panni cialtroni del sedicente free lance (inesistente nella biografia di Miles) di Rolling Stone, sfigato, mal vestito, mal destro e sgangherato, ideale contraltare ed integrazione del leggendario trombettista. Ruolo che Cheadle ha voluto per sé. Con molta ragione, visti gli esiti. Un furbetto squattrinato insomma McGregor, che fa di tutto ma solo per intervistare un Davis attorniato invece da tagliagole d’ogni risma che attentano in tutti i modi ai precari brandelli della sua già precaria serenità. Mentre medita sul rientro, dopo la clamorosa sparizione dalle scene fra 1975 e 1979. Il piccolo scriba, come ogni piccolo scriba, sogna lo scoop d’ordinanza che potrebbe cambiargli la piccola vita.
 
Solitudine, depressione & cocaina. Per sua e nostra fortuna, Miles Ahead non è né un biopic né un documentario. Ma, come tanto buon cinema da quando il cinema esiste, un’autentica, appassionata fiction dalla solida base documentaria. Dalla quale in filigrana - mentre qua e là Cheadle e i suoi autori si son riservati ipotesi psicoanalitiche non peregrine - affiorano tanti reali dettagli biografici: la moglie ballerina (Cicely Tyson, il nome di quella vera) che lo salvò due volte dalle droghe pesanti e che l’amava follemente malgrado gli innumerevoli tradimenti; la passione per le auto di lusso, la boxe e la pittura; le lotte all’arma bianca coi discografici; il rapporto compulsivo con le donne e la coca; il cronico disprezzo per i media. Nel non seguire una traccia cronologica della vita di Davis, come fa anche la colonna sonora con la pubblicazione dei dischi, il film un punto fermo però ce l’ha. La partenza col tuffo nell’abisso della più cupa solitudine di un Davis ormai solissimo, come non lo è mai stato, distrutto dalla fatica inumana d’aver tanto, troppo inventato e troppo a lungo: nel ’75 l’ultimo colpo del genio, la leggendaria svolta elettrica si è appena conclusa. Per giunta, dopo quasi trent’anni d’una creatività soprannaturale e ininterrotta donata agli umani. Davis è un Prometeo esausto, svuotato, terrorizzato dal non aver più nulla da dire né da dare, si sente brutto, lui un tempo bellissimo, e sparisce dal mondo. Col quale è inoltre incazzato a morte. Discografici, media, colleghi, la polizia che lo pesta senza ragione solo perché, inammissibile, famoso, ricco e nero; ennesimo fatto reale della biografia di Davis che Cheadle modifica brillantemente a uso e consumo del proprio film.
 
Un distillato di documenti e finzione. Nessuno si salva. Soprattutto perché agli occhi di Miles tutti sono colpevoli d’aver umiliato un immane talento, il suo. Del quale era perfettamente e giustamente conscio. Così lo racconta Miles Ahead, anzi l’immagina, di nuovo impastando documento e invenzione, distillando le fonti storiche in un personaggio veramente inventato. Rabbioso, sinistro e aggressivo – esisteva eccome anche un Davis spaccone, violento, provocatorio – che nel film si sovrappone a quello depresso e cocainomane oltre ogni immaginazione degli anni di isolamento. Quel livoroso autorecluso nel proprio lussuoso appartamento-santuario in pieno abbandono, Cheadle lo restituisce duro, desolato e dolentissimo ma impenetrabile, con una prova d’attore da par suo. Prima di tutto con la voce roca, bassa, gorgogliante, come smerigliata con la carta vetrata, proprio come quella di Davis: una performance davvero sbalorditiva. Poi, nei rari flashback giovanili, con la figura composta vestita della raffinata eleganza all’italiana che fu sua fino a metà ’60, e dopo col kitsch da record del mondo che sfoggiò strafottente dai ’70 in poi, ulteriore schiaffo al mondo nel periodo in cui, non a caso, suonava di spalle al pubblico. Completando il tutto con acconciature ben più che ridicole ed enormi occhiali da sole pacchiani come di più non si potrebbe. Ma era Miles e questo doveva bastare. A tutti. E sennò che andassero a quel paese.
 
Fra noir e action movie. E se non è un biopic o un documentario, Miles Ahead è invece un gran bel noir di stampo persino classico. Un eccellente film di genere, anche un po’ gangster movie, con tanto di grisbì rubato – un nastro con musica che ha tutta l’aria del Graal individuale del Davis alla deriva inseguito da Cheadle – e successiva investigazione in piena regola per ritrovarlo, con boss e assistente, inseguimenti, botte, rivoltellate e quel po’ di sangue che serve. Viaggio nel tormentato cuore di tenebra di Davis, il film è percorso dalle calibrate scosse elettriche dell’action movie. Che il trionfo di interni con mezze luci e buio, i colori pieni, saturi fin quasi a sparire, i movimenti di macchina avvolgenti e sovente addosso agli attori e un montaggio millimetrico accentuano con scabra eleganza ma senza le inutili convulsioni oggi tanto di moda. Come lo ha disegnato la sceneggiatura molto inventiva ma anche sempre molto aderente al fine del film: raccontare Miles uomo sull’orlo del baratro. Lungo il quale in effetti, anche se più di altri tenendo a bada la propria non piccola pulsione di morte, ha danzato tutta la vita.
 
Niente happy end per un eroe moderno. La sua musica – che si può anche chiamare jazz ma non è necessario farlo, tanto è sconfinata e visionaria – conta fino ad un certo punto nella struttura di Miles Ahead. D’altronde lo stesso Davis-Cheadle praticamente non suona, impegnato com’è a vedere se prima di tutto riesce a ri-trovarsi. Con questa chiave hard boiled e anti mitica, antidoto applicato per giunta e per scelta ad un mito dell’arte del ‘900, il film taglia alla radice qualsiasi malinconia e/o mitologia alla Bird di Eastwood o alla ‘Round Midnight di Tavernier. Questa è una storia che fa male e in cui ci si fa male: come per ogni eroe moderno, per Miles Davis non c’è happy end possibile. Non è mai stato facile accoppiare il jazz e il cinema di finzione: Miles Ahead ci riesce bene, non è poca cosa, perché in effetti come detto fa altro, racconta un uomo più che il suo jazz. Risultato colto, è il caso di sottolinearlo, per l’alta qualità della sceneggiatura, ma anche per la mano registica di Cheadle, che in questo suo debutto si mostra tesa, dura, di esemplare asciuttezza e vigore. Capace inoltre di guidare con sicurezza l’eletta schiera di attori di un film che ha pure una sua povera ma convincente coralità, quella senza appello di un demi monde scuro e marcio, di un miasmatico sottobosco da grande metropoli. Da Emayatzy Corinealdi, intensa moglie di Miles, al già citato McGregor e gli interpreti dei tanti musicisti, manager e mezze figure, non c’è una sola battuta o un movimento fuori posto. Senza dimenticare la scelta per il curatore delle musiche che, caduta su una stella fra le più luminose della black music contemporanea, Robert Glasper, la dice lunga pure sulle competenze musicali di Cheadle.
 
Dai rapper mongoli a Yo Yo Ma sulla Via della Seta. “Immagini & suoni dal mondo” prosegue ancora il 22 e 23, con i suoi pellegrinaggi fra luoghi meravigliosi ed esperienze molto difficilmente a portata di un comune viaggio. Fin qui il festival, dopo Miles Ahead, ha attraversato già molti mondi. Prima con Mongolian Bling di Benji Binks ha svelato l’ascesa dei giovani rapper mongoli di Ulan Bator, seguita, in Roaring Abyss di Quinto Pineiro, da due anni di mappatura sul campo dell’enorme patrimonio folklorico etiope, arrivando fino al pellegrinaggio lungo la millenaria Via della Seta che Yo Yo Ma - fra i più ammirati e aperti violoncellisti del mondo – ha intrapreso con la carovana di musicisti d’ogni origine per testimoniare la forza di pace della musica. Sabato 23 tocca (ore 17) a Y/Our Music, indagine filmata nelle suburbia di Bangkok come nelle campagne dell’interno dell’inglese David Reeve e del tailandese Waraluck Hiransrettawat, sui mille sincretismi fra le molte voci della tradizione tailandese e l’invasione dei suoni occidentali, emocore incluso.
 
I piccoli di Montevideo e gli strumenti della discarica. Ancora una volta musica può voler dire pace, o almeno il suo tentativo: accade in Sevdah (18.30), il film bosniaco di Mira Erdevicki che segue imprese e diaspora degli artisti della Mostar Sevdah Reunion Band, ai tempi della guerra riunitisi per suonare oltre religioni e odi. Landfill Harmonic invece (ore 21), di Brad Allgood e Graham Townsley racconta la storia di un’orchestra di giovanissimi delle baraccopoli di Montevideo che, non avendo soldi per gli strumenti, se li sono costruiti tutti con materiali di discarica, arrivando, a cogliere il proprio sogno di andare in tour all’estero e poi salire sullo stesso palco coi loro idoli Megadeath. Domenica 23, giornata finale del festival, si parte coi giochi aquatico-musicali fra tradizione, ukulele ed espressioni di oggi, delle ragazze delle Vanuatu, arcipelago tropicale a nord-est di Australia e Nuova Caledonia, che Tim Col racconta in Women’s Water Music (ore 17); segue Small Path Music di David Harris (ore 18), che si è messo in viaggio sulle vie meno note del Laos del nord per seguire l’etnomusicologo Laurent Jeanneau sulle tracce di musiche epiche, rituali sciamanici e canzoni d’amore. Le ultime immagini e suoni arrivano da Capo Verde: prima con Kontinuasom (ore 21) di Oscar Martinez, su appartenenza ed emigrazione degli isolani alla loro terra in mezzo all’Atlantico attraverso la storia della ballerina Beti. Poi col concerto (22.30) di Karin Mensah, la cui bella, sensuale voce, accompagnata da un trio italiano, affronta, in chiave jazz e soul, la morna, la coladeira e la funana, ovvero tre delle forme prevalenti della ricca tradizione capoverdiana, inevitabilmente legata per collocazione geo-culturale alla nascita della musica afroamericana.