Cultura

Tiziano Terzani, una vita spesa in viaggio "fuori e dentro"

A 10 anni dalla morte, il 28 luglio 2004 nella sua casa di Orsigna, il giornalista e scrittore continua a parlare con i suoi libri ai lettori di tutte le età. Con tutti i suoi "giri di giostra", le sue battaglie, i suoi successi e i suoi dolori, raccontando un'Asia di cui ha carpito i segreti per decenni
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SUA MOGLIE Angela e i figli, un paesino toscano dov'è tornato a morire, l'Asia che lo ha accolto. Per Tiziano Terzani sono stati questi gli amori e le bussole di un'esistenza durante la quale la sua idea di destino si è formata raccontando se stesso e il mondo che lo circondava, quasi mai viceversa.

E' forse questo che a dieci anni dalla sua morte colpisce sempre più fortemente, rileggendo la sua vasta produzione di articoli e libri, uno più interessante e intenso dell'altro. Il suo scrivere in prima persona, il rito dei diari quotidiani appena pubblicati in collezione, la riflessione sui dettagli di una vita spesa in viaggio "fuori e dentro", sono stati una delle chiavi del suo successo e della svolta finale: cancellare il proprio nome dall'associazione con il 'circo Barnum' mediatico che celebra artificialmente le persone 'arrivate'.
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Terzani il successo l'ha sudato, conquistato di trincea in trincea, di viaggio in viaggio, di delusione in delusione. Ma dai tempi della malattia si faceva chiamare Anam, il senzanome, perché personalmente non ne aveva più bisogno. Aveva reso il suo cognome un brand, non commerciale, ma di quella nicchia sugli scaffali dove trovi le cose buone, nel suo caso l'opera di un giornalista d'origine controllata, dal cui stile e profondità potevano attingere parecchie generazioni di cronisti e scrittori a venire.

Terzani ha sempre fatto sapere il più possibile di sé, una volta saltato oltre il fronte della scrittura in terza persona, la sottile trincea dove al cronista è permesso solo di registrare gli eventi con l'occhio vigile ma invisibile. Lui era un uomo immerso nel mondo e nel presente col naso verso il vento e le dita sulla tastiera della "Lettera 32", prima che sul moderno laptop dove puoi cancellare e incollare a piacimento. Era il segugio che ti lascia fiutare la sua stessa pista anche se sapevi bene che doveva concludersi a un certo punto, perché le pagine di giornale sulle quali ha scritto per tanti anni non avevano bordi infiniti, ma limiti tipografici.
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Il giovane cronista fiorentino de Il Giornale del mattino che nel '55 andava a resocontare partitelle di calcio del Campionato nazionale dilettanti, al termine di una carriera raccontata e ancora da raccontare, ha finito per trasformarsi nell'icona di un certo narrare di viaggio, non nuovo, come sa chi ha letto e amato Kapu?ci?ski al quale Terzani è stato spesso associato per lo stile da "giornalismo magico". Ma Terzani ha inaugurato un genere senza etichette, quasi un 'selfie' con lui e lo sfondo dell'Asia, un genere che ha permesso a un pubblico sempre più vasto di penetrare la sua personalità, e non solo le storie che raccontava.

Anche per questo il suo lettore, alla ricerca di anima in questa era di valori evanescenti e bombardamenti di notizie, è "ringiovanito" invece di invecchiare come succede ai paludati quotidiani di carta, dove il vecchio giornalismo e quello nuovo ancora si combattono per conquistare i benemeriti lettori tradizionalisti, a loro volta incerti su ciò che vorrebbero.
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Molti hanno cominciato a leggere l'autore di Un indovino mi disse dalle sue ultime opere, e non da Pelle di leopardo - Giai Phong, sulla caduta e liberazione di Saigon. Ma per delineare il ritratto di questo protagonista della storia del giornalismo italiano non è possibile fare a meno di citare una delle sue deduzioni registrate sui diari da poco pubblicati, dove scrive che quel libro dal titolo "sbagliato" non sarebbe stato possibile se il settimanale tedesco Stern gli avesse imposto limiti di tempo per la sua permanenza in Vietnam. Erano anni nei quali c'erano soldi da spendere per dei buon reportage che non sfiorassero a volo d'uccello le storie e gli eventi della cronaca come accade spesso con Internet. Erano anni in cui i giornalisti presenti a un grande evento di cronaca mondiale - come ricorda Bernardo Valli, uno degli amici più intimi di Terzani - erano alcune centinaia, non alcune migliaia come oggi, ma pur sempre un numero ragguardevole, che si muoveva però verso la prossima storia lasciandosi dietro la vecchia. Anche se era in pieno svolgimento, come a Saigon dove si trattava di vedere come se la cavavano i nuovi leader comunisti alle prese con un Paese devastato e tutto da ricostruire.

Per soddisfare i più frettolosi media italiani con i quali collaborava, Terzani ha consumato energie che talvolta non aveva voglia di spendere, essendo un toscano di natura schietta e senza giri di parole, pronto a ribollire quando un capo redattore o un direttore valutavano in maniera errata dalle loro postazioni redazionali la portata di una storia che lui aveva sperimentato sul campo a costo di malaria e incidenti, estenuanti trattative con autisti e fonti, col tempo per macinare l'articolo e la deadline che ti soffia sul collo lasciandoti rimuginare di notte l'attacco del testo.

Non credo che sia un caso se Terzani alla fine si sia deciso a lasciare questo mondo privo di risentimenti. Quando il suo cuore ha cessato di battere nella ormai celebre casa di Orsigna, circondato dall'affetto dei suoi e dal calore dei lettori in numero crescente, tutti hanno avvertito uno spirito bonario sprigionarsi da quell'uomo che era stato talvolta arrogante, forse depresso come tanti uomini e donne, ma che fu in grado di scoprire finalmente ciò che aveva cercato ovunque, dalle remote vette dell'Himalaya alla giungla del Vietnam, tra i marciapiedi lindi di Manhattan e le steppe caucasiche. Un qualcosa che i suoi maestri induisti e buddhisti tibetani definivano con il termine bodhicitta.
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E' il principio del seme di compassione che germoglia nella futura pace, da coltivare e far maturare se gli uomini singoli e le collettività vogliono evitare un conflitto finale, come spiega nelle sue Lettere contro la guerra. Del bodhicitta Terzani aveva appreso dall'Oriente non solo le definizioni filosofiche, ma anche le pratiche meditative che preparano la mente a lasciare, per la prima volta dopo tanti anni, un corpo che le sta appiccicato come un pesante fardello trascinato tra malattie e paure fisiche. Di quella mente - che ha abitato un corpo prima aitante e poi di vecchio dalla lunga barba bianca, come nell'iconografia ufficiale - se ne avverte ormai una presenza sempre più costante, virtuale e reale, nella Rete, nelle librerie, nei premi internazionali a lui dedicati, nei cinema e nelle sale conferenza dove Angela Staude Terzani, Folco e Saskia continuano a rispondere, con la generosità del loro Tiziano, alle continue richieste di parlare di lui.

Che dire che non sia stato già detto, specialmente dopo quel 28 luglio del 2004 a Orsigna, se non per chi ancora non ha mai letto un suo libro o una raccolta di reportage? Avendolo conosciuto solo nella penultima parte della sua straordinaria esistenza, ricordo che il giorno in cui è morto mi trovavo nella residenza del Dalai lama per un'intervista al leader tibetano, e suo fratello Ngari Rimpoche, che lo aveva conosciuto bene, mi chiedeva di lui. Era forse solo una di quelle coincidenze alle quali Terzani avrebbe fatto caso tra lo scettico e il curioso, ma non c'è dubbio che il buddhismo tibetano sia stata una delle sue scoperte importanti, tanto da creare nel suo eremo toscano un "gompa" personale.

Terzani era un giornalista vecchio stampo, di una specie che dovrebbe essere protetta come i sempre più rari corvi Alala delle Hawaii, un uccello che altrove invece è assai prolifico e che il giornalista scrittore amava particolarmente, tanto da imbastirci lunghe discussioni solitarie testimoniate da familiari e amici, come Beniamino Natale che ci ha scritto un libro. Le sue chiacchiere francescane con gli uccelli e in misura maggiore le sue meditazioni himalayane, sono ormai parte dell'aneddotica della sua vita, ma non sono mai state inserite abbastanza nel contesto di un percorso spirituale parallelo all'evoluzione di una personalità formata soprattutto scrivendo per mestiere, dove non puoi permetterti di far pesare la fatica e lo stress che spesso comporta quel livello di fluidità e chiarezza che caratterizza i testi di Terzani e di altri narratori del suo livello.

La memoria lasciata dall'eremita di Orsigna è abbastanza dettagliata da spiegare con quanta invidia lui, già famoso e rispettato, vedeva per esempio il suo collega e amico Jean Claude Pomontì di Le Monde, andarsene a cena lavato e sbarbato mentre lui faticava e sudava per chiudere un pezzo sull'ultima giornata tra gli sfollati delle foreste vietnamite sotto bombardamento americano.

Un'altra fonte collaterale e potenzialmente inesauribile di pubblico carisma è derivata, oltre che dalla eccentricità e dal suo aspetto fisico imponente e magnetico, dalla sua sostanziosa biografia ufficiale di corrispondenze e libri come La Porta proibita, Un indovino mi disse, L'ultimo giro di Giostra, La fine è il mio inizio (tratto dalle conversazioni con il figlio Folco), e  -  infine - i diari già citati e pubblicati postumi a cura di sua moglie con titolo Un'idea di destino. Il suo stesso passaggio dalla rappresentanza della Olivetti al giornalismo di corrispondenza dall'Asia, è ormai parte della sua piccola leggenda di uomo coraggioso che ha trascinato la famiglia verso una vita lontana dalle consuetidini, e per questo affascinante ma piena di sorprese che, talvolta, non sono sempre piacevoli.
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Nonostante la fama conquistata in Italia e altrove dopo la sua espulsione dalla Cina comunista, Terzani non ha vissuto con serenità quell'imposizione da Politburo che riteneva ingiusta. Anche perché sapeva che aveva fatto di tutto per non evitarla, ovvero semplicemente non aveva smesso di raccontare ciò che vedeva e capiva viaggiando per la Cina soltanto perché gli era stato intimato di non farlo. Ne andava della sua carriera, contrapposta sulla bilancia delle scelte alla placidità della nuova dimensione di vita imposta ai suoi, coi figli a scuola cinese, le passeggiate tra gli hutong di Pechino in bicicletta, gli amici che gli svelavano i segreti dietro le quinte di un potere monolitico e asfissiante.

Fin dalle prime raccolte  -  come In Asia - fu finalmente chiaro a un pubblico di poco in poco sempre più vasto la capacità di Terzani di rimettersi continuamente in gioco perché era consapevole che avrebbe saputo sempre e comunque procurarsi il pane semplificando storie complesse d'Oriente, raccontando vicende personali capaci di catturare l'immaginifico, il pathos dei luoghi, e offrirlo a un pubblico spesso digiuno, non tanto di notizie quanto di quelle sensazioni offerte attraverso la cronaca dai cambiamenti che avvenivano nel grande continente a est dell'Indo.

Terzani si è spento con una certa serenità perché ha potuto guardare indietro e ha visto che la sua vita spesa a viaggiare e raccontare non aveva in fondo soddisfatto solo sé stesso, né unicamente gratificato il suo ego, smisurato come quello d un artista affascinato dalla sua tela, ma anche i lettori di professione, quelli che portarono il suo Indovino tra i candidati del premio Bancarella. Nonostante la delusione che gli procurò il mancato riconoscimento finale, sapeva di aver vissuto e raccontato con quella generosità che è forse la principale chiave del suo successo ancora vivo e crescente. Una generosità che non gli fu riconosciuta in vita, e non soltanto dai giudici dei premi letterari, ma spesso anche da chi gli commissionava gli articoli, come si evince ovunque nella sua ultima opera, la più intima e dolorosa, la cronaca di esaltazioni e depressioni profonde raccontate a sé stesso, unico lettore autorizzato a sfogliare quelle pagine fino al giorno della sua morte.

Dell'Asia svelata articolo dopo articolo e libro dopo libro, lui stesso aveva fatto fatica a carpire i segreti, pure dopo aver attraversato per 34 anni le strade di Pechino, Hong Kong e Saigon, di Phnom Penh e dei villaggi laotiani, di Tokyo e di Bangkok. Da qui la semplicità del suo narrare, un altro motivo della sua longevità artistica, del suo trasformarsi sempre più da giornalista a scrittore per giungere  -  i due insieme - alla meta di un uomo senza nome che non conserva crucci.
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Un uomo alla fine profondamente diverso dal reporter di razza di Stern, de La Repubblica e del Corriere della sera, del laureato a Pisa, del figlio di un meccanico di Lastra a Signa e di una cappellaia che vanno al Monte di Pietà per comprargli i pantaloni della scuola, del manager Olivetti, che a un certo punto scopre l'Oriente e lo soppesa, ne prende per decenni ciò che lo appaga e lascia ciò che lo repelle.

Infine quando dieci anni fa se n'è andato in pace, ha lasciato tra le pagine ordinate e selezionate molte frasi per l'amata Angela, che ha sopportato  -  si legge qua e là  -  le sfuriate nate dalla frustrazione di un mestiere che richiedeva anche a un maestro come lui sempre di più velocità e movimento. Il contrario delle aspirazioni di un uomo già maturo, che aveva bisogno di rallentare il ritmo e riflettere sempre di di più.

Se fosse ancora vivo e attivo, col suo odio per certe deformazioni "copia e incolla" del mestiere insegnato a tavolino nelle scuole, avrebbe certamente inarcato con sconcerto le sue ampie sopracciglia leggendo che gli iscritti all'Ordine dei Giornalisti devono oggi accumulare punti con l'aggiornamento professionale online e-o aziendale per dimostrare talento e credibilità. Non perché non avesse più niente da imparare, ma perché aveva ormai troppo da insegnare. Eppure anche a lui, leggi alla mano, qualche esperto di scrittura da scrivania avrebbe dovuto apporre un timbro per autorizzare il rinnovo della tessera di una professione che, in fondo, non gli apparteneva più.
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