Spettacoli

I Depeche Mode travolgono Milano:
rock elettronico in bianco e nero

Tutto esaurito a San Siro per la band inglese, tra le più longeve e di successo della scena pop-rock internazionale. Pezzi del nuovo disco, "Delta Machine", in cui rivendicano l'anima e le radici blues, alternati alle hit della loro grande tradizione. Che hanno fatto cantare e ballare lo stadio

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MILANO - Arrivano come principi, maestosi signori del rock elettronico, con la voce di Dave Gahan che subito getta in avanti i suoi brandelli di passione sulle trame sintetiche di Welcome to my world, incipit del nuovo disco e quindi del tour in corso (che sabato arriverà all'Olimpico di Roma). E non c'è modo migliore di entrare in questo mondo che è dominato dalla costante esplorazione della relazione tra uomo e macchina, tra naturale e artificiale, analogia e tecnologia, il cuore adagiato su un tappeto elettrico, cullato da una delle cruciali dinamiche che spiegano il nostro tempo.
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I Depeche Mode sono un crocevia di correnti emotive, declinate a partire da un sotterraneo blues del nuovo secolo, filtrate da un soul argutamente plastificato, e narrano il loro romanzo contemporaneo alternando pezzi del nuovo disco, Angel, Heaven, una travolgente Soothe my Soul, ai gioielli del passato come Walking in my shoes, fin dentro la cupa rivelazione di Black celebration o la vigile scossa di Policy of truth, tratta da Violator, il loro capolavoro e in più legato a doppio filo con l'Italia perché in parte registrato proprio qui a Milano, dove stasera stanno riempiendo lo stadio di postmoderni ancheggiamenti, rapide e solenni affermazioni di potenza.

E il tutto condito dalla grafica e dalle immagini di Anton Corbijn che è a sua volta un maestro nell'uso della semplicità immaginifica come strumento di decoro e di arricchimento visivo. Un semplice bianco e nero sullo sfondo, poche scintille, dei cani che fissano lo schermo come se guardassero i protagonisti sul palco, pochi ma necessari elementi concepiti da uno dei pochi ad aver capito che in uno stadio anche una goccia fa rumore, e a volte basta quella per creare la più potente delle evocazioni.
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I Depeche, va detto, sono in grande forma, sembrano godere di questa condizione adulta, di piena maturità, trentatré anni di carriera, tormentosa, ricca di colpi scena, mutazioni, morti e rinascite, perfettamente consapevoli dei loro mezzi, e costruiscono sul palco un concerto molto diretto, proteso in avanti, molto rock in un certo senso, o comunque stracolmo di energia, un'onda di chitarre, percussioni e tastiere elettroniche che monta, non lascia spazi vuoti e cresce con Question of time, Secret, così che quando arriva Enjoy the silence lo stadio può liberarsi in un trionfo di passione, di estatico godimento, come fosse l'atteso momento di piena felicità, quando è possibile condividere ogni singola nota, ogni singola frase, come fossero tasselli di un irripetibile momento di empatia collettiva, e tutto questo inneggiando al silenzio.

Poi ribadiscono questa ferrea, monumentale pratica emotiva col martellamento incalzante di Personal Jesus. E su Goodbye Corbijn ne inventa un'altra delle sue, proiettando l'immagine in bianco e nero dei tre Depeche, immobili, imperturbabili, che sulla panchina di un parco, guardando dritto davanti a sé, si scambiano cappelli. Finisce qui, teoricamente, prima del rituale ritorno in scena per la finale sequenza dei bis, ovviamente implacabile, inaugurata da Martin Gore che va a prendersi il centro della scena, come aveva già fatto a metà concerto, accompagnato solo dalle note di un pianoforte, per cantare l'elegia di Home, al netto di tutto, acustico e spoglio, con lo stadio che gli fa da coro. E lo fa talmente bene che a un certo punto Gore si mette a dirigere le voci, e in questo gli italiani si fanno sempre valere, e intonano perfettamente le note della canzone e continuano anche quando le luci si spengono e il gruppo sta per riprendere con la sua forma completa e Gahan rientra in scena continuando a giocare con le voci che corrono da una gradinata all'altra.
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E si conclude cadendo verso il finale con gli ultimi fuochi d'artificio, Halo, poi la festa dance di Just can't get enough, I feel for you, e infine il pezzo con cui il gruppo ama chiudere sempre i concerti, ovvero Never let me down, che risale al disco Music for the masses, titolo che voleva essere ironico ma diventò ineluttabile realtà di un percorso che porta dritto fino al concerto che ha fatto saltare all'unisono l'intero stadio di San Siro.